Dal 2026 i social smetteranno di funzionare come hanno funzionato finora. Non perché cambino le piattaforme, né perché gli utenti “scappino”. Cambia il modo in cui si costruiscono attenzione, fiducia e influenza. E chi continua a ragionare solo in termini di visibilità rischia di parlare nel vuoto.
La mappa arriva da un’analisi sui comportamenti reali di utenti, creator, aziende e piattaforme, presentata da Chris Kastenholz, Ceo di Pulse Advertising. Al centro c’è la Gen Z, prima generazione completamente nativa digitale, che trascorre circa il 50% del proprio tempo online senza separare vita reale e dimensione digitale. È qui che emergono le fratture più evidenti: l’heritage non basta più, i creator diventano filtri, le conversazioni migrano altrove, le metriche inseguono fenomeni che non vedono.
1. Quando la storia non impressiona più
Il passato di un brand non impressiona più. Viene valutato, semmai, come un dato tra gli altri. Per la Gen Z non è una garanzia automatica di affidabilità: il 71% ritiene che i marchi non comprendano davvero il proprio pubblico, pur rappresentando circa il 40% dei consumatori globali. Ne deriva una distanza che non produce contestazione, ma disinteresse.
In questo spazio crescono marchi nati attorno a figure riconoscibili, capaci di trasferire al prodotto una relazione già esistente. Nel beauty, anche in Italia, i brand fondati da creator crescono rapidamente perché riducono la distanza tra chi parla e chi ascolta. La fiducia non deriva dall’anzianità, ma dalla continuità dell’esposizione.
2. I creator fanno selezione
Le collaborazioni con i creator non sono più una variante creativa della pubblicità tradizionale, ma un modello economico autonomo. I costi sono aumentati fino a venti volte rispetto al 2014, ma anche il ritorno: +53% di click-through rate e -19% di costo di acquisizione cliente rispetto ai canali classici.
Il punto non è il formato, ma il ruolo. Il creator non amplifica: filtra. Decide cosa entra nel proprio perimetro e cosa resta fuori. Traduce il brand in un linguaggio che la community riconosce come legittimo. Per le aziende significa perdere controllo sul messaggio, ma è l’unico modo per restare rilevanti in un ambiente che penalizza l’interruzione.
3. Il feed non è più sufficiente
L’influenza che resta confinata allo schermo mostra i suoi limiti. Podcast dal vivo, eventi fisici, format digitali che diventano appuntamenti offline indicano un cambio di fase. In Italia, esperienze come Tintoria o Porecast dimostrano che una community costruita online può tradursi in partecipazione reale.
È una prova di solidità. Chi riesce a portare il pubblico fuori dalla piattaforma consolida il rapporto. Chi resta nel feed rimane esposto alla volatilità dell’attenzione e agli umori dell’algoritmo.
4. Intrattenere non basta più
L’intrattenimento leggero non scompare, ma perde centralità. Cresce la domanda di contenuti utili: spiegazioni, competenze, indicazioni pratiche. I social vengono usati sempre più come motori di ricerca informali, dove cercare risposte e salvare informazioni.
Non conta l’argomento, ma il valore trasferito. Vince chi rende l’informazione utilizzabile, dalla divulgazione scientifica ai tutorial quotidiani. Anche in Italia, profili dedicati a salute ed educazione intercettano bisogni che spesso le istituzioni non presidiano con la stessa rapidità.
5. La coerenza batte l’estetica
La cura visiva è diventata lo standard. Non distingue più. Ciò che viene osservato è il comportamento nel tempo: come un brand si muove, cosa sostiene, cosa evita, come reagisce quando il contesto cambia.
I valori dichiarati vengono messi alla prova nelle scelte concrete. L’impegno storico di MAC Cosmetics nella lotta all’HIV/AIDS o il riposizionamento di Adidas dopo la fine dell’era Yeezy mostrano come il purpose incida sulla percezione di affidabilità. Non viene richiesta perfezione, ma coerenza.
6. Il dark social come nuovo spazio di fiducia
Circa l’80% delle condivisioni della Gen Z avviene in spazi privati: chat, gruppi chiusi, messaggi diretti. È il cosiddetto dark social. Qui si formano le opinioni che contano, lontano da like e commenti pubblici.
Le metriche tradizionali diventano parziali. Un contenuto può incidere sulle scelte senza lasciare tracce visibili. Per brand e creator significa lavorare su linguaggi meno promozionali e più conversazionali, accettando meno visibilità in cambio di maggiore rilevanza.
7. L’era multi-screen
La Gen Z consuma più contenuti contemporaneamente: video senza audio, podcast in sottofondo, piattaforme sovrapposte. L’attenzione è intermittente. Questo cambia la produzione: vincono contenuti che funzionano anche in ascolto parziale o che attivano l’utente con meccaniche semplici e riconoscibili.
8. Meglio un appuntamento che un exploit
Il contenuto isolato perde peso. Funzionano appuntamenti ricorrenti, format riconoscibili, continuità editoriale. Podcast a puntate, newsletter periodiche, serie che attraversano piattaforme diverse costruiscono familiarità.
9. L’utente si muove senza avvisare
La distinzione tra online e offline conta sempre meno. Le persone passano da uno spazio all’altro senza soluzione di continuità. I contenuti devono fare lo stesso, adattando linguaggio e formato al contesto. Pensare per canali isolati diventa un limite: funzionano gli ecosistemi, non le uscite singole.
10. L’Ai accelera, ma non decide
Gli strumenti di intelligenza artificiale rendono la produzione più rapida e la distribuzione più ampia, abbattendo barriere linguistiche e facilitando la localizzazione. Ma non risolvono il nodo centrale: il contesto. Capire quando parlare, come farlo e a chi resta una competenza umana.
Educare ai social senza divieti: il metodo Miss Mamma Sorriso
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Giovani
content.lab@adnkronos.com (Redazione)


