Fare un figlio, oggi, non è una priorità. Non lo è per la maggioranza delle persone in età feconda e non lo è nemmeno nel medio periodo. I dati Istat del 2024 sulle intenzioni di fecondità inchiodano l’Italia a una realtà ormai difficile da rimuovere: solo il 21,2% dei 18-49enni pensa a una nascita nei prossimi tre anni. Tutti gli altri rinviano o chiudono la porta. È un livello mai così basso, coerente con una fecondità scesa a 1,18 figli per donna. Numeri che non sorprendono più, ma che continuano a ridisegnare in profondità la struttura demografica del Paese.
Il punto non è la scomparsa del desiderio di genitorialità, ma la sua progressiva espulsione dal campo delle decisioni praticabili. A restare è un’intenzione astratta, slegata da un tempo definito, che si adatta alle condizioni invece di orientarle. Le scelte riproduttive si muovono così su un terreno ristretto, segnato da lavoro instabile, redditi intermittenti, costi abitativi elevati e servizi che non accompagnano le fasi cruciali della vita adulta. In questo contesto il tempo non funziona come una risorsa che amplia le possibilità, ma come un fattore che le restringe, soprattutto per le donne.
Quando rinviare diventa la regola
Nel 2024 quasi tre persone su quattro tra i 18 e i 49 anni dichiarano di non voler avere figli nei tre anni successivi. Il dato è cresciuto rispetto al 2003, ma soprattutto ha cambiato significato. Il rinvio non è più una strategia temporanea, funzionale a una migliore collocazione lavorativa o abitativa, bensì la modalità ordinaria con cui la fecondità viene gestita. Il breve periodo si svuota di progettualità, diventa uno spazio di attesa che raramente si trasforma in decisione.
Questo processo è particolarmente evidente nelle età centrali. Tra i 25 e i 34 anni, fase tradizionalmente associata all’avvio della vita familiare, meno di quattro persone su dieci esprimono un’intenzione positiva a tre anni. Tra i 35 e i 44 anni la quota si riduce ulteriormente, segnalando una contrazione del tempo riproduttivo che non dipende solo dall’età biologica, ma dalla percezione di condizioni non adeguate.
Una parte consistente di chi rinvia continua a collocare la genitorialità in un futuro più lontano. Circa un terzo di chi esclude il breve periodo afferma di volere figli dopo. È un bacino numericamente rilevante, ma in progressiva riduzione rispetto al passato. Ogni anno che passa senza cambiamenti strutturali aumenta la probabilità che quell’intenzione resti tale.
Tra i più giovani la dinamica è diversa solo in apparenza. I 18-24enni escludono quasi unanimemente una nascita nel breve periodo, ma in larga maggioranza dichiarano di volere figli in futuro. È una disponibilità interamente proiettata in avanti, priva di ancoraggi concreti. Già in questa fase emergono differenze di genere: gli uomini si mostrano più propensi a immaginare una paternità futura, mentre le donne adottano una maggiore cautela, anticipando valutazioni che riguardano lavoro, reddito e compatibilità tra ruoli.
I giovani non vogliono avere figli? Solo uno su tre, gli altri non guadagnano abbastanza
All’estremo opposto, tra i 45 e i 49 anni, il quadro è definito. Chi non intende avere figli nel breve periodo non li prevede nemmeno nel resto della vita. L’aumento del peso demografico di questa fascia contribuisce al calo complessivo delle intenzioni, ma non ne rappresenta la causa principale. Il nodo resta concentrato nelle età in cui la scelta sarebbe ancora possibile, ma viene percepita come poco praticabile.
La fecondità selettiva
Le intenzioni di fecondità variano in modo netto a seconda della condizione familiare. Tra chi ha già un figlio, una quota rilevante continua a considerare l’ipotesi di averne un altro nel breve periodo. È il segmento che mostra la maggiore continuità progettuale, perché ha già attraversato la soglia iniziale e dispone di un’esperienza diretta della compatibilità tra genitorialità e condizioni di vita. Il primo figlio resta, in questo senso, il passaggio decisivo.
Tra chi non ha figli, invece, le intenzioni risultano più fragili e più esposte ai vincoli esterni. Gli uomini che pensano a una nascita entro tre anni sono meno di uno su quattro, mentre tra le donne la quota è leggermente più alta, riflettendo una maggiore pressione temporale. Tuttavia questa differenza non si traduce in un aumento delle nascite, perché la probabilità di realizzazione resta condizionata da fattori che sfuggono al controllo individuale.
Quando i figli già avuti sono due o più, la prosecuzione del progetto riproduttivo diventa marginale. La famiglia numerosa perde peso non solo nei comportamenti osservati, ma anche nelle aspirazioni dichiarate. Cala la quota di chi indica due figli come ideale, si riduce ulteriormente quella di chi immagina tre o più figli, mentre cresce l’area di incertezza. Non sapere quanti figli si vorrebbero è spesso il riflesso di una mancanza di riferimenti stabili, più che di un’incertezza soggettiva.
Le differenze territoriali amplificano questa selettività. Nel Nord, in particolare nel Nord-est, il modello dei due figli mantiene una maggiore tenuta, mentre nel Sud e nelle Isole prevale l’indecisione. Qui quasi una persona su due non riesce a indicare un numero desiderato. Il contesto economico e occupazionale incide direttamente sulla capacità di formulare un progetto familiare definito, rendendo la fecondità più vulnerabile alle condizioni locali.
Quando volere non basta
Il confronto tra intenzioni dichiarate e nascite effettive mette in luce il punto di maggiore criticità. Meno della metà delle donne che nel 2016 avevano espresso un’intenzione positiva di avere un figlio è riuscita a realizzarla nei tre anni successivi. Anche tra chi si collocava nell’area della certezza, solo una minoranza ha portato a compimento il progetto. Il resto si è arrestato lungo il percorso, senza che l’intenzione venisse formalmente ritirata.
Questo scarto è fortemente selettivo. Le probabilità di realizzazione aumentano per le donne più giovani, più istruite, occupate e con figli già avuti. Le laureate presentano un vantaggio netto rispetto a chi ha livelli di istruzione più bassi, mentre l’occupazione si conferma un fattore decisivo. La fecondità diventa così un esito sempre più legato alla disponibilità di risorse economiche e professionali, accentuando le disuguaglianze.
L’effetto di questo meccanismo si riflette sulle intenzioni stesse. Se l’esperienza diffusa mostra che anche volerlo non basta, la propensione a dichiarare un desiderio si riduce. La rinuncia definitiva cresce. Oltre 10,5 milioni di persone in età feconda affermano di non voler avere figli né ora né in futuro. In un caso su tre la motivazione principale è economica, seguita da fattori legati all’età, alle responsabilità di cura verso i genitori anziani, alle condizioni lavorative e all’assenza di un partner.
Queste motivazioni si distribuiscono in modo diverso tra gruppi sociali. Tra le donne senza figli pesa maggiormente la mancanza di una relazione stabile. Tra gli uomini giovani emergono soprattutto le difficoltà economiche. Tra le donne tra i 25 e i 34 anni il lavoro rappresenta un ostacolo centrale, non tanto per l’assenza di occupazione, quanto per la sua instabilità e scarsa protezione.
Il costo concentrato della maternità
La relazione tra genitorialità e lavoro resta il punto più fragile dell’intero sistema. La metà delle donne ritiene che l’arrivo di un figlio possa peggiorare le proprie opportunità professionali, una percezione che tra le più giovani supera ampiamente i due terzi. Non si tratta di un timore astratto, ma di una valutazione fondata su esperienze diffuse di penalizzazione occupazionale e di difficoltà di rientro dopo la maternità.
Tra gli uomini la percezione è opposta. La maggioranza non prevede conseguenze sulla propria posizione lavorativa, segnalando una distribuzione asimmetrica dei costi della genitorialità. Questo squilibrio incide direttamente sulle decisioni, perché porta le donne a incorporare il rischio nelle scelte, rinviando o ridimensionando il progetto riproduttivo anche in presenza di un desiderio esplicito.
Alle preoccupazioni lavorative si affiancano quelle economiche. Oltre la metà di uomini e donne teme un peggioramento delle proprie condizioni finanziarie con l’arrivo di un figlio, una quota che cresce ulteriormente tra i più giovani. Il costo dei figli viene percepito come strutturale e difficilmente assorbibile, soprattutto in presenza di redditi incerti e spese abitative elevate.
Perché le intenzioni non si traducono in nascite
Quando si chiede quali interventi potrebbero incidere sulla natalità, le risposte convergono su un insieme ristretto di priorità: sostegno economico, servizi per l’infanzia, politiche abitative. Le differenze territoriali modulano l’ordine di importanza, ma non il contenuto delle richieste. Dove mancano servizi si chiedono servizi; dove la casa pesa di più si chiede un intervento sugli affitti e sui mutui; dove il lavoro è più fragile si invocano politiche occupazionali.
Il quadro che emerge è stabile e coerente nel tempo. Le esigenze sono note e ripetute. Ciò che manca è una risposta capace di incidere sulle condizioni che separano le intenzioni dalle nascite. Nel frattempo, la fecondità si concentra sempre più tra chi dispone di risorse, mentre il bacino potenziale si restringe e le disuguaglianze si amplificano.
Le intenzioni di fecondità non anticipano automaticamente i comportamenti, ma delineano il perimetro del possibile. In Italia quel perimetro si è progressivamente ristretto. Non per un mutamento improvviso dei desideri, ma per una lunga esposizione a un contesto che rende la genitorialità una scelta sempre più complessa, costosa e rinviabile.
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Fertilità
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