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“Il carcere è lo specchio della società”: cosa rivela davvero l’Italia dietro le sbarre

Assuefatto all’idea di una esistenza senza speranza. Youssef, marocchino di 43 anni, è morto a fine ottobre dopo aver inalato troppo gas nella sua cella nel cercare di Bollate. Le ipotesi sono due: che abbia voluto ‘farsi’, stordirsi, ma abbia esagerato, oppure che abbia cercato – con successo – di suicidarsi. In entrambi i casi, la sua storia rimanda alla mancanza di prospettiva che spesso accomuna chi vive recluso, raccontata dalla giornalista Francesca Ghezzani nel suo libro ‘Il silenzio dentro’: un’inchiesta costruttiva e non pietosa, realista ma non disfattista, della complessa situazione delle carceri italiane. Youssef, infatti, è solo uno dei tantissimi ‘episodi’ che attraversano le cronache, destinati a non lasciare traccia, né nell’opinione pubblica né sulle politiche dedicate ai penitenziari.

Come vedremo, in Italia ci sono anche cose che funzionano bene. E, sebbene i problemi del sistema penitenziario siano molti, le direzioni verso cui andare sono note. Ghezzani le ha spiegate a Demografica Adnkronos, partendo da una considerazione, sottolineata da Assunta Corbo, giornalista e speaker TedX, nella prefazione: il carcere è lo specchio della società. E se è così, cosa rivela di noi il sistema carcerario italiano?

Diverse cose. Intanto, che siamo fondamentalmente disinteressati all’argomento, anche perché riteniamo quel mondo qualcosa di molto lontano da noi, popolato da scarti della società, spesso immaginati come nei più classici film – tatuati e palestrati, ‘ceffi’ da galera. Eppure, dietro alle sbarre ci finiscono anche persone che non avrebbero mai pensato di finirci e che invece sono state travolte dal vortice di quella che Ghezzani descrive come ‘criminalità della sfiga’.

La ‘criminalità della sfiga’

Ghezzani le ha incontrate, girando per i penitenziari di tutta Italia: ad esempio, persone che prima erano rispettabilissime ma che si sono trovate in difficoltà dopo aver perso il lavoro . Oppure che sono nate e vissute in mezzo alla criminalità e dunque non hanno avuto a disposizione alternative, “non avendo altre forme da imitare se non la malavita”.

Per usare l’espressione di uno degli intervistati dalla giornalista nel suo libro, Enrico Sbriglia, ex dirigente di carcere oggi presidente dell’Osservatorio Internazionale sulla Legalità di Trieste, “le carceri si sono trasformate in grandi caravanserragli”. Dice Sbriglia: “Sono piene di folli, di disadattati, di uomini e donne che hanno delinquito perché espunti dal mondo del lavoro, perché scarto delle crisi economiche, della perdita di lavoro, di mancanza di case; oppure di giovani, indigeni o stranieri, (…) verso i quali la scuola e le istituzioni formative tradizionali hanno fallito la propria missione”.

La deterrenza non funziona

Il nostro sistema carcerario ci mostra anche un’altra cosa: abbiamo un approccio punitivo. Ed è invece interessante notare come non ci sia un effetto deterrenza. Non è l’idea della punizione, in altre parole, a frenare le persone in procinto di compiere un reato, come conferma Ghezzani.

Lo dimostra anche il tasso di recidiva, che per l’Italia è impietoso: siamo “al 68,7% e la gente che c’è dentro è di solito addirittura alla quinta recidiva consecutiva”, fa sapere la giornalista sottolineando come le recidive contribuiscano al sovraffollamento nelle carceri, che a sua volta “esaspera completamente l’ambiente interno, il personale, i condannati”.

Anche da questo punto di vista i numeri parlano chiaro: il tasso di affollamento tocca a livello nazionale il 132,6%, ma si tratta di una media: a San Vittore a Milano l’affollamento effettivo ha raggiunto il 225%, a Brescia Canton Monbello il 205%, a Taranto il 195%. Si contano ormai 59 istituti con un tasso superiore al 150%.

La funzione che la nostra Costituzione assegna al carcere, ovvero quella di rieducare il condannato, sembra davvero lontana dalla realtà.

Affollamento, recidive e suicidi: tutto è collegato

Tasso di recidiva e sovraffollamento sono i dati che più di tutti ci aiutano a inquadrare il problema del sistema carcerario italiano. “Sono le due facce della stessa medaglia”, spiega Ghezzani, perché con le celle piene “il personale, già carente, non riesce a stare dietro a tutti”, e perché “il tasso di recidiva è una causa e una conseguenza del sovraffollamento: le persone escono, non sono state rieducate, incappano nella recidiva e affollano le celle”.

Consideriamo anche che “la maggior parte delle persone è dentro per droga e se non ci sono delle misure deflattive (alternative alla giustizia, mirano a ridurre il carico di lavoro dei tribunali, ndr) o un’opera di prevenzione non riesci ad abbassare i numeri. Numeri che erano scesi dopo la sentenza Torreggiani nel 2013 (la Corte europea dei diritti dell’uomo condannò l’Italia per il sovraffollamento carcerario, definendolo un trattamento inumano e degradante, ndr), ma ora stiamo ritoccando dei record”.

Ci sono anche altre conseguenze: i suicidi. Secondo i dati del Dipartimento dell’Amministrazione Penitenziaria (Dap), nel 2024 62 detenuti si sono tolti la vita in carcere dall’inizio dell’anno e fino al 6 agosto. Di altre 15 morti la causa è ancora da accertare. “Chiaramente se le persone non vengono rieducate, non vengono assistite individualmente, hanno pochi metri quadrati a disposizione, siamo al livello in cui le donne non hanno gli assorbenti, lo spazio fisico diventa invivibile e porta a preferire la morte”. A questo si aggiunge il fenomeno della ‘gate anxiety’, cioè l’’ansia da cancello’, quello che porta verso la libertà.

Alessio Scandurra, coordinatore dell’osservatorio di Antigone sulle carceri, ha evidenziato a Ghezzani che la maggior parte dei suicidi succede pochi giorni prima della rimessa in libertà. “La libertà fa più paura del carcere, perché se non c’è stato un processo di rieducazione e reinserimento quando escono non hanno alcun punto di riferimento”, sottolinea la giornalista.

I problemi del sistema carcerario italiano

Ghezzani enuclea tre problemi del sistema carcerario italiano: “Uno, il reinserimento delle persone tornate in libertà. Due, i familiari con cui non si sa se nel frattempo abbiano intrattenuto o meno rapporti. Terzo, la sicurezza della collettività perché, se queste persone non si reintegrano, la prima cosa che fanno è delinquere di nuovo”. Fermo restando che c’è anche chi “non ha alcuna intenzione di prendere una via retta e appena escono delinquono di nuovo. Su questo, bando all’ipocrisia: sono i carcerati i primi a dirtelo”.

A tal proposito la giornalista ha raccolto l’esperienza di Mirko Federico, un attivista che racconta come non si sia redento grazie al carcere, ma “nonostante il carcere”. Cioè, “non grazie non al sistema, ma grazie a ergastolani che gli hanno fatto capire il valore della vita e di doversela riprendere in mano una volta uscito”. Federico denuncia anche “il grande impatto emotivo: una volta che una persona ha superato la porta del carcere non è assolutamente più lo stessa. E la rieducazione è scritta solo sulla Carta costituzionale”.

Anche i tempi burocratici hanno il loro peso: le richieste di lavoro, ad esempio, hanno un iter così lungo e a volte prevedono parametri tali che alla fine non si concretizzano. Basti pensare che solo per avere un colloquio con un direttore di un penitenziario è facile che ci vogliano 6 mesi. Servirebbe invece una maggiore collaborazione tra lo Stato e il mondo delle imprese, come Antigone chiarisce all’autrice del libro.

Cosa si può fare: tre parole chiave

Per ogni problema c’è una soluzione, dice la saggezza popolare. E se il problema è complesso, come è il caso del sistema carcerario italiano, anche la soluzione dovrà essere articolata. Ma esiste. La direzione la sintetizza Ghezzani in tre parole chiave: reinserimento lavorativo, formazione, sport.

L’ultimo può forse sorprendere ma, come sottolinea la giornalista, lo sport “ti permette di rispettare il prossimo e le regole, di avere consapevolezza di te stesso all’interno di una squadra; ti permette di sfogare la rabbia, la noia, di fatto è disciplina che poi può essere riportata post condanna”.

Un altro aspetto sorprendente è la fede: “Don Ciotti dice che la fede è qualcosa che accomuna, apre la speranza e quindi abbatte quelle barriere che di fuori la fede a volte crea”, racconta l’autrice del libro. E dal sacro al profano, anche l’intelligenza artificiale potrebbe essere utilizzata, ad esempio per supervisionare l’umore dei detenuti in modo più puntuale rispetto a quello che la carenza di personale riesce a fare ad oggi.

Ci sono poi ‘esperimenti’ come le Transition Houses lituane, carceri aperte per la preparazione al rilascio. Ghezzani spiega che in Parlamento c’è un disegno di legge, però è una soluzione molto costosa, mentre “ammassare le persone sicuramente costa molto meno”.

Il già citato Sbriglia propone invece un modello di carcere europeo, che diventi – lo chiarisce a Ghezzani – “il prototipo non solo sul piano strutturale, ma anche organizzativo e di servizi alla persona, che occorre assicurare a ogni detenuto e non perché siamo buoni e generosi, ma semplicemente perché ci consideriamo “civili ed europei”.

Ci sono anche cose che funzionano

Ma intanto in Italia ci sono anche cose che funzionano.

In primis, “una certa partnership tra il mondo universitario e il mondo carcerario, con persone che si laureano mentre scontano la loro pena”, spiega la giornalista. Poi funziona sicuramente la storia di Pino Cantatore, cofondatore di bee.4, che ha inserito in carcere una realtà come il call center che permette ai condannati di lavorare e di quindi produrre reddito e di crearsi una professione.

Oppure l’impegno di Oscar La Rosa, cofondatore di Economia Carceraria, che realizza progetti aprendo o gestendo laboratori in carcere o assumendo detenuti che possono lavorare all’esterno. “Il risultato è un peso minore economico per la società, inoltre se lavori le giornate passano prima, trovi un posto nella società e senti di poter fare anche delle cose belle”.

Ancora, Maria Giovanna Santucci, giornalista e docente, ha portato in carcere la possibilità di cucinare e le persone “attraverso un piatto si sono raccontate, si sono sentite accettate. E anche questo è un processo volto alla consapevolezza di sé, dei propri sbagli e del reinserimento”, racconta Ghezzani aggiungendo che funzionano anche il teatro o progetti ‘particolari’ come la pet therapy e lo yoga della risata.

E le storie belle da raccontare, nonostante tutto, ci sono. Ad esempio, quella del vicedirettore di ‘Voci di dentro’, Claudio Bottan, attivista che adesso si occupa di sociale e che una volta uscito dal carcere ha conosciuto Simona, malata di Sla, con la quale ha avviato un’amicizia. Oggi i due, fra le altre cose, vanno nelle scuole a raccontare la vita in carcere e quella sulla sedia rotelle. “Siamo la prova vivente che non è mai finita e che un futuro nuovo è sempre possibile”, dice Bottan a Ghezzani.

E questo è anche il messaggio finale del libro, che “non assolve né condanna”, come avvisa Corbo nella prefazione. Il senso de ‘Il silenzio dentro’, continua, “vive nella parola rispetto”, per l’essere umano e per la possibilità di rinascere. Con una consapevolezza: “Il carcere, per funzionare davvero, non può essere solo luogo di punizione. Deve tornare a essere un luogo di cura”. Perché nessun detenuto sia più assuefatto all’idea di una esistenza senza speranza.

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content.lab@adnkronos.com (Redazione)

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