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Il genocidio dimenticato: torture, stupri e infrastrutture distrutto, il Sudan rischia di non avere un futuro

Un satellite passa sui cieli del Sudan, le sue immagini non emettono suoni, ma parlano chiaramente: il Paese è distrutto, gli edifici in gran parte polverizzati, strisce di sangue macchiano ciò che resta delle strade.
È questa la fotografia della più grave crisi umanitaria mai registrata dall’International Rescue Committee in Sudan. Qui dal 15 aprile 2023, le Forze di supporto rapido (Rsf) e l’esercito regolare sudanese (Saf) si combattono in una guerra che ha già causato tra 150.000 e oltre 200.000 morti, secondo stime che variano enormemente per l’impossibilità di contare tutte le vittime.

Gli eventi dell’ultima settimana a el-Fasher — dove testimoni oculari raccontano di sabbia diventata rossa per il sangue, visibile persino dai satelliti — hanno spinto la comunità internazionale a parlare apertamente di genocidio. Ma le conseguenze più devastanti si misureranno nei prossimi decenni: l’impatto demografico di questa guerra sta modellando un Paese che potrebbe non riprendersi mai del tutto.​

Le radici del conflitto

La guerra scoppiata nell’aprile 2023 affonda le proprie origini in un nodo irrisolto del processo di transizione democratica: l’integrazione delle Rsf nell’esercito regolare. Le Rapid Support Forces nascono nel 2013 come versione formalizzata delle milizie Janjaweed — quelle stesse forze che nei primi anni 2000 seminarono il terrore in Darfur con massacri, stupri e distruzioni sistematiche di villaggi. Il presidente Omar al-Bashir le trasformò in una forza paramilitare sotto il comando di Mohamed Hamdan Dagalo, noto come Hemedti, affidandole operazioni controinsurrezionali che si tradussero sistematicamente in crimini di guerra.​

Dopo il colpo di Stato del 2019 che depose al-Bashir, Hemedti divenne vicepresidente del Consiglio sovrano di transizione, mentre il generale Abdel Fattah al-Burhan guidava l’esercito regolare. Il progetto di integrazione delle Rsf nelle forze armate regolari avrebbe privato Hemedti del suo potere autonomo, costruito anche grazie ai proventi dell’estrazione dell’oro nel nord del Darfur e agli ingenti finanziamenti — negati ma documentati — degli Emirati Arabi Uniti. Il 15 aprile 2023 lo scontro si è trasformato in una guerra che sta devastando un Paese di oltre 48 milioni di abitanti.​

Il bilancio umano

Le cifre della tragedia restano incerte per l’impossibilità di accedere a vaste aree del Paese. Le stime oscillano tra i 150.000 calcolati da ricercatori indipendenti, con alcuni studi che ipotizzano fino a 200.000 vittime. Solo nello stato di Khartoum, tra aprile 2023 e giugno 2024, sono morte oltre 61.000 persone secondo la London School of Hygiene & Tropical Medicine. La presa di el-Fasher da parte delle Rsf, avvenuta l’ultima settimana di ottobre 2025, ha causato decine di migliaia di morti in pochi giorni.​

I sopravvissuti raccontano esecuzioni di massa con modalità raccapriccianti. Le Rsf hanno circondato gruppi di civili in fuga, separato uomini da donne e bambini, poi aperto il fuoco. Mirjana Spoljaric, presidente del Comitato internazionale della Croce Rossa, ha dichiarato che “la storia si sta ripetendo” in Darfur, in riferimento al genocidio dei primi anni 2000.​

Lo sfollamento ha dimensioni colossali. Oltre 11,3 milioni di sudanesi sono sfollati interni — una delle più grandi crisi di dislocazione al mondo — mentre quasi 4 milioni hanno attraversato i confini, principalmente verso Egitto, Sud Sudan e Ciad. Più di 863.000 persone si sono rifugiate in Ciad, mentre circa 780.000 sud-sudanesi che avevano trovato rifugio in Sudan sono tornati nel loro Paese devastato.​

Il collasso sanitario e la mortalità materno-infantile

Il sistema sanitario sudanese è crollato. Tra il 70% e l’80% delle strutture sanitarie è non operativo o completamente sopraffatto. L’Organizzazione mondiale della sanità ha registrato 145 attacchi contro strutture sanitarie, che hanno causato oltre 80 morti e interrotto servizi essenziali. Le conseguenze per donne e bambini sono catastrofiche: il tasso di mortalità materna è salito a 295 decessi ogni 100.000 nascite, mentre la mortalità infantile ha raggiunto 51 morti ogni 1.000 nati vivi.​

Médecins Sans Frontières ha documentato che solo due ospedali supportati dall’organizzazione nel Darfur meridionale hanno registrato, tra gennaio e agosto 2024, un numero di morti materne superiore al 7% del totale globale di tutti i progetti Msf nel 2023. “Questa è una crisi diversa da qualsiasi altra nella mia carriera”, ha dichiarato la dottoressa Gillian Burkhardt, responsabile delle attività di salute riproduttiva di Msf a Nyala. Nel Paese ci sono circa 270.000 donne incinte sfollate senza alcun luogo sicuro dove partorire, e oltre 90.000 dovrebbero dare alla luce i loro figli nei prossimi mesi.​

I casi di aborto spontaneo sono aumentati drasticamente nei campi profughi per mancanza di cure mediche adeguate. La Sudan Family Planning Association ha segnalato che centinaia di donne sfollate soffrono per la grave carenza di servizi di salute riproduttiva.

Lo stupro e la tortura come armi di guerra

Le donne sfollate in Sudan affrontano una violenza sistematica, brutale e spietata. Come riportano organizzazioni quali Amnesty International e Terredeshommes. Le forze paramilitari, in particolare le Rapid Support Forces (Rsf), hanno usato lo stupro come arma di guerra, commettendo stupri di gruppo su donne e ragazze, alcune addirittura di 8 anni, in diverse regioni del Paese tra il 2023 e il 2025. La violenza include tortura, sevizie e uccisioni, come nel caso di una madre stuprata mentre le veniva strappato il bambino durante l’allattamento e di donne ridotte in schiavitù sessuale per settimane.​

Le atrocità sono talmente diffuse da coinvolgere ogni aspetto della vita delle donne: vengono aggredite nelle loro case, mentre fuggono, cercano cibo o acqua. Molte sono sequestrate e costrette a matrimoni forzati o trafficate a scopo sessuale, con abusi che spesso sono ripetuti per giorni o addirittura mesi. La violenza non risparmia nemmeno bambine e adolescenti, che subiscono gravi traumi fisici e psicologici. La tortura con liquidi bollenti o lame affilate e le uccisioni accrescono ulteriormente la sofferenza.​

Molte vittime non ricevono alcuna assistenza medica o psicologica, aggravando il trauma e compromettendo gravemente la salute riproduttiva, con conseguenze di lungo termine come sterilizzazioni forzate, aborto spontaneo, infezioni e danni permanenti agli organi genitali. La violenza ha un impatto anche sociale ed economico: le donne traumatizzate, spesso sole e isolate, sono escluse dai processi di ricostruzione e riorganizzazione delle comunità sfollate.​

La carestia e l’insicurezza alimentare

Oltre 30,4 milioni di persone — più della metà della popolazione sudanese — necessitano di assistenza umanitaria urgente. L’insicurezza alimentare ha raggiunto livelli catastrofici: 24,6 milioni di sudanesi affrontano la fame acuta. La carestia è stata ufficialmente confermata in parti del Darfur settentrionale e delle montagne Nuba, e si prevede che condizioni simili si diffonderanno nei prossimi mesi. Il World Food Programme avverte che, senza una cessazione delle ostilità, il Sudan rischia di diventare “la più grande crisi alimentare della storia recente”.​

Screening condotti da Msf hanno rilevato tassi ben oltre i parametri che definiscono un’emergenza sanitaria. Le malattie infettive — colera, dengue, malaria — si diffondono rapidamente per il collasso dei servizi di sanità pubblica.

L’impatto demografico di lungo periodo

La combinazione di mortalità elevata, sfollamento di massa, collasso sanitario e carestia creerà un vuoto generazionale difficilmente colmabile.​

Prima del conflitto, il Sudan aveva un tasso di fecondità di 4,05 figli per donna e un’età mediana di soli 18,9 anni. La guerra sta alterando drasticamente questi parametri. La ricerca indica che i cali di fertilità legati ai conflitti sono spesso causati da ritardi o riduzioni nei matrimoni. Nel Sudan attuale, con milioni di giovani sfollati, separati dalle proprie comunità e in condizioni di sopravvivenza estrema, è prevedibile un crollo dei matrimoni e delle nascite che durerà anni anche dopo la fine delle ostilità.​

La mortalità materna elevata non solo causa tragedie immediate, ma riduce la capacità riproduttiva futura della popolazione. Con 295 morti materne ogni 100.000 nascite — un tasso superiore alla media globale di 223 del 2020 — migliaia di donne in età riproduttiva stanno perdendo la vita. La mortalità infantile a 51 per 1.000 nati vivi, superiore alla media globale di 37, significa che decine di migliaia di bambini non raggiungeranno il quinto anno di età.​

Lo sfollamento di quasi 15 milioni di persone — circa un terzo della popolazione — ha disintegrato le strutture familiari e comunitarie. Anche quando la guerra finirà, il ritorno alla normalità sarà lungo e difficile. I primi rientri registrati tra dicembre 2024 e marzo 2025, che hanno visto circa 400.000 persone tornare nelle aree di origine negli stati di Aj Jazirah, Sennar e Khartoum, mostrano una realtà desolante: le persone tornano in città devastate, dove cibo, riparo e servizi di base sono praticamente inesistenti.​

L’Organizzazione internazionale per le migrazioni ha avvertito che “le condizioni per un ritorno sicuro e sostenibile non sono ancora presenti”. Meno di un quarto delle strutture sanitarie nelle aree più colpite rimane funzionale. Senza infrastrutture, assistenza sanitaria ed educazione, le famiglie non potranno ricostruire le proprie vite né pianificare un futuro con figli.​

La diaspora e la perdita di capitale umano

L’esodo di quasi 4 milioni di sudanesi verso paesi vicini rappresenta una perdita di capitale umano che impoverirà il paese per decenni. Egitto, Sud Sudan e Ciad — destinazioni principali — sono a loro volta Paesi con risorse limitate e crisi proprie. È improbabile che la maggior parte di questi rifugiati possa tornare a breve, privando il Sudan di intere coorti di popolazione in età lavorativa e riproduttiva con inevitabili ricadute future.

La guerra sta inoltre cancellando progressi faticosamente conquistati in ambito educativo e sanitario. Con un tasso di alfabetizzazione femminile che prima del conflitto era al 50,5% contro il 71,8% maschile, il Sudan aveva già forti disparità di genere. Il collasso del sistema educativo — scuole bombardate, insegnanti sfollati, famiglie incapaci di permettersi l’istruzione — condannerà un’intera generazione all’analfabetismo, perpetuando cicli di povertà e vulnerabilità che impatteranno la demografia futura.​

Uno scenario senza via d’uscita

El-Fasher, l’ultima roccaforte dell’esercito in Darfur, è caduta nelle mani delle Rsf alla fine di ottobre 2025, dando al gruppo paramilitare il controllo effettivo su oltre il 25% del territorio nazionale. Le Rsf hanno negato di aver commesso massacri, ma le testimonianze, le immagini satellitari e i video diffusi sui social media raccontano una realtà opposta. La comunità internazionale, dopo aver largamente ignorato la crisi per oltre due anni, si trova ora di fronte a un genocidio conclamato.

Le proiezioni demografiche elaborate prima della guerra prevedevano che, con politiche adeguate, il Sudan avrebbe potuto ridurre significativamente mortalità infantile e povertà estrema entro il 2043. Oggi questi scenari appaiono irrealisticamente ottimisti. Il Paese ha perso anni cruciali di sviluppo e ha visto morire o fuggire milioni di persone. Quando la guerra finirà — e nessuno sa quando — il Sudan sarà un Paese demograficamente mutilato, con una piramide delle età distorta, una popolazione traumatizzata e dispersa, e una capacità riproduttiva compromessa per decenni.

Popolazione

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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