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L’effetto nido sull’occupazione femminile: cosa succede quando lo Stato investe

Ogni posto in più in un asilo nido pubblico cambia le possibilità di lavoro di una madre. È questo il punto centrale dello studio “Does expanding nursery places affect mothers’ employment?”, coordinato da Ylenia Brilli del Dipartimento di Economia dell’Università Ca’ Foscari di Venezia insieme a Francesco Andreoli e Simona Fiore dell’Università di Verona e Lucia Schiavon di Ca’ Foscari, nell’ambito del progetto Retain, finanziato dal programma Prin.

La ricerca parte da una constatazione semplice: in Italia, lavorare dopo la maternità è ancora un percorso ad ostacoli. Nel 2024, mentre nei Paesi Ue-27 il tasso di occupazione femminile raggiunge il 72,4%, da noi si ferma al 57,4%. Tra le madri, scende al 54%. Solo una su due lavora.

Lo studio mostra che ampliare i servizi per la prima infanzia ha un effetto diretto e misurabile sull’occupazione femminile. Nei comuni dove è cresciuta l’offerta di nidi, la probabilità che una madre torni al lavoro dopo il congedo è aumentata del 16,8%. Quasi tutto il beneficio deriva dal rientro nello stesso impiego precedente (+12,3%).

Per Brilli, “investire in asili nido non è solo una politica sociale, ma una potente leva per la crescita economica e la parità di genere”.

Un piano da un miliardo che ha cambiato i numeri

Per capire quanto il sistema dei nidi possa incidere sul lavoro femminile, i ricercatori hanno analizzato l’impatto del Piano Straordinario per lo Sviluppo dei Servizi per la Prima Infanzia (Pssspi), varato nel 2007. Un miliardo di euro destinato ad aumentare i posti disponibili e ridurre il divario territoriale.

La ricerca ha incrociato dati comunali e un’indagine diretta su 1.500 madri in tutta Italia. Nei territori dove il piano ha prodotto un’espansione dei servizi, le famiglie hanno smesso di rinunciare all’asilo per mancanza di strutture. La quota di chi indica “assenza di nidi” come motivo di esclusione è scesa del 10,7%.
Ma il dato più interessante riguarda l’organizzazione familiare. Dove ci sono nidi pubblici, si riduce il ricorso alla cura informale: la probabilità che sia la madre a restare a casa cala del 16,6%, quella che siano i nonni a occuparsi dei figli diminuisce del 21,7%. È un effetto a catena: la disponibilità di servizi pubblici consente alle madri di tornare al lavoro, riduce la dipendenza dalla rete familiare e crea nuova domanda di occupazione nel settore educativo. Una politica sociale che diventa infrastruttura economica.

Nord e Sud

Il Piano 2007 aveva anche l’obiettivo di ridurre il divario tra Nord e Sud, ma i risultati mostrano che la geografia dei servizi continua a segnare la distanza tra le regioni. Nelle aree settentrionali, dove la rete dei nidi era già estesa, gli investimenti hanno consolidato un sistema efficiente. Nel Mezzogiorno, invece, l’offerta resta insufficiente.

La differenza si traduce in opportunità. Al Nord, i tassi di copertura superano spesso il 35–40% dei bambini sotto i tre anni; in alcune province meridionali non arrivano al 10%. Nei territori dove i nidi mancano, la maternità resta un ostacolo alla carriera.

L’analisi del gruppo di ricerca mostra che la presenza di servizi per l’infanzia è una delle variabili più forti nel determinare la partecipazione femminile al lavoro. Dove mancano strutture, aumenta la probabilità di abbandonare il mercato, con effetti duraturi.

L’Italia è ancora spaccata tra aree che hanno fatto dei nidi un diritto garantito e zone dove la cura dei figli resta un affare privato. È in questa frattura che si misura gran parte del divario occupazionale di genere.

Una lezione per le politiche pubbliche

Lo studio, presentato al workshop “Retain – Incentives and Barriers to Maternal Employment”, si basa su un modello econometrico che isola l’effetto causale dell’aumento dei nidi sul lavoro delle madri, assicurando solidità ai risultati.

I ricercatori hanno anche verificato i dati attraverso l’indagine Istat sulle Forze di Lavoro, con un campione di 90 mila madri osservate tra il 2004 e il 2014. Le conclusioni restano stabili: l’espansione dei servizi pubblici per la prima infanzia aumenta la probabilità di occupazione e riduce la dipendenza dalle reti familiari di cura.

Il progetto Retain, sostenuto dal programma Prin e dal Pnrr – Cluster 2 “Cultura, Creatività e Società Inclusiva”, ha coinvolto l’Università Ca’ Foscari, l’Università di Verona e la Bocconi, con l’obiettivo di capire perché l’Italia resta tra i Paesi europei con la più bassa partecipazione femminile al lavoro.
L’evidenza emersa è chiara: i servizi educativi per la prima infanzia non sono una spesa di welfare, ma una leva di produttività e di riequilibrio sociale. Una politica pubblica che, se applicata in modo omogeneo, può ridurre uno dei divari più persistenti del mercato del lavoro italiano.

Famiglia

content.lab@adnkronos.com (Redazione)

© Riproduzione riservata

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