(Adnkronos) – Dopo il risiko delle banche, il testamento di Giorgio Armani ha acceso un altro processo di consolidamento: quello della moda. Quel negozio mortis causa, redatto con il consueto pragmatismo dello stilista e con la sua complessa architettura di governance, apre uno scenario inedito nel panorama industriale e finanziario italiano. L’idea di fondo sembra chiara: garantire stabilitĂ nell’immediato, con un periodo di transizione privo di scossoni, ma preparare il terreno a una crescita che punti alla massa critica necessaria in un settore globale e competitivo come la moda: o attraverso la vendita a un gruppo straniero o mediante l’apertura al mercato dei capitali. Da quelle carte sembra uscire però non l'inedita storia del Gruppo Armani, ma l'edita anatomia del capitalismo italiano che a un certo punto si trova a fare i conti con il principio di realtĂ . "Un ragionamento – spiega all'Adnkronos Riccardo Puglisi, professore ordinario di scienza delle finanze all’UniversitĂ degli Studi di Pavia – che riecheggia le riflessioni di Sergio Marchionne nell’automotive: solo le aggregazioni, la capacitĂ di sfruttare economie di scala, consentono di restare competitivi in mercati sempre piĂą consolidati. In Italia, però, i campioni nazionali in grado di giocare questa partita non sono molti", precisa l'economista. Gli esempi non mancano, e la tavola dei colori è ricca. Senza nessuna pretesa di esaustivitĂ e in ordine sparso: Ferrero rappresenta un caso virtuoso, un colosso rimasto saldamente italiano, pur senza la quotazione in Borsa. Luxottica ha invece intrapreso una via ibrida con Essilor, mantenendo un’anima italiana. "Al contrario – prosegue Puglisi – molte aziende di famiglia – gioielli del made in Italy – scelgono di non aprirsi al mercato, rinunciando a crescere pur di non perdere il controllo". Una resistenza che, non di rado, conduce a un epilogo opposto: la vendita a gruppi esteri. L’eccezione Ferrero, dice l'economista, "è quella che conferma la regola".  Il nodo della quotazione resta centrale. In Italia, come ricorda il professore, le famiglie imprenditoriali temono il controllo esterno e preferiscono restare proprietarie assolute, anche a costo di rinunciare a dimensioni piĂą competitive. Negli Stati Uniti, invece, il modello della public company "ha permesso di separare la proprietĂ dal management: la famiglia conserva una quota, talvolta anche significativa, ma non piĂą maggioritaria; i fondi pensione e gli investitori istituzionali partecipano alle decisioni, creando societĂ piĂą solide e capaci di affrontare le sfide globali". La moda oggi, con il “caso Armani”, è al centro dell’attenzione. Ma non è l’unico settore. In molti osservatori vedono nel farmaceutico un terreno fertile per nuove aggregazioni, complice il calo delle quotazioni che rende piĂą convenienti eventuali takeover. Anche l’alimentare, nonostante una maggiore stabilitĂ , continua a muoversi: Sammontana sembra aver capito bene l'antifona e giĂ un anno fa ha annunciato la quotazione dopo cinque anni. La domanda di fondo resta aperta: l’Italia saprĂ produrre grandi campioni globali senza rinunciare al controllo familiare? Oppure continuerĂ nella filosofia anni '80 'piccolo è bello'? La risposta dipenderĂ dalla capacitĂ di superare un retaggio culturale che frena la crescita e accettare che, talvolta, “perdere un po’ di controllo” possa significare guadagnare molto di piĂą in soliditĂ , efficienza e competitivitĂ . (di Andrea Persili) —finanzawebinfo@adnkronos.com (Web Info)
Il caso Armani e l’anatomia di un capitalismo italiano ‘poco quotato’
© Riproduzione riservata